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Lavoro senza frontiere: global mobility, opportunità e attenzioni
La ricerca di Executive e la mobilità internazionale sono infatti attività che sempre più spesso camminano di pari passo, visto che le carriere dei manager sono sempre più internazionali e si devono considerare anche gli aspetti fiscali e contributivi connessi alla mobilità dei lavoratori.
Cominciamo in modo leggero, dalle pagine sportive dei quotidiani… perché l’Inter ha dovuto firmare il contratto con Lukaku entro il 30 giugno?
Il legislatore già nel 2015 ha varato con il “Decreto Internazionalizzazione” incentivi fiscali per diverse categorie di lavoratori, con l’obiettivo di attrarre persone che arrivano dall’estero attraverso la leva fiscale: con l’esenzione di una parte del reddito di lavoro subordinato, esse sono sottoposte ad un regime fiscale vantaggioso. Una delle categorie interessate, introdotta nel 2019 con il Decreto Crescita, è proprio quella degli sportivi professionisti, che ne beneficiano in modo particolare perché hanno solitamente retribuzioni molto elevate.
Venendo però al nostro lavoro di headhunter, tale agevolazione ha punti di contatto con il cosiddetto “rientro dei cervelli”?
Ci occupiamo spesso di gestire i rientri in Italia del personale espatriato all’estero, soprattutto negli ultimi anni a seguito della pandemia. In questo caso, il cosiddetto “Regime per i lavoratori impatriati”, previsto dal Decreto Internazionalizzazione (D.Lgs. 147/2015), si applica ai cittadini di qualunque nazionalità che siano stati fiscalmente residenti all’estero per almeno due anni e si impegnino a trasferire la propria residenza fiscale in Italia, mantenendola per almeno due anni e svolgendo attività lavorativa prevalentemente nel territorio italiano.
Le agevolazioni sono molto interessanti, perché per un minimo di 5 anni le imposte si applicheranno solo sul 30% dei redditi (ciò può voler dire un’aliquota intorno al 10% sul reddito lordo). E l’agevolazione può essere ancora più rilevante, con l’applicazione per un periodo più esteso o di un’esenzione più ampia in presenza di alcune specifiche condizioni, quali l’acquisto di una casa o lo spostamento della residenza fiscale in alcune regioni del Sud.
Tra le tante tecnicalità che è necessario studiare, ci sono elementi di attenzione che vuoi evidenziarci?
Il più significativo (anche perché relativamente nuovo) riguarda il rientro dei lavoratori distaccati: in questo caso le agevolazioni si applicano solo se il dipendente sottoscrive con il proprio datore di lavoro italiano un nuovo contratto di lavoro con un ruolo diverso e superiore rispetto a quello ricoperto e mantenuto durante il distacco all’estero.
Per noi il bacino degli “italiani all’estero” è diventato molto interessante… Le aziende hanno consapevolezza di questi incentivi? Abbiamo recentemente individuato in Germania un manager italiano e - al momento di assumerlo - l’azienda ci è parsa sorpresa dei vantaggi fiscali…
I nostri clienti sono solitamente informati sul tema, se non altro perché hanno buona esperienza in materia di mobilità internazionale. Però hai ragione: non è una conoscenza così diffusa tra coloro che non gestiscono quotidianamente la mobilità internazionale del proprio personale.
Veniamo ora al caso contrario, quello di un dipendente italiano che viene spostato all’estero. Per iniziare, vuoi elencarci quali sono le diverse modalità per tali invii?
Al di là della trasferta, che si utilizza solo per periodi occasionali e sporadici, mai oltre i sei mesi, le modalità possibili sono:
- il trasferimento di sede
- il distacco
- l’assunzione all’estero.
Quali sono le principali caratteristiche?
L’istituto del trasferimento di sede consiste in un mutamento sufficientemente stabile e duraturo, anche se non permanente, della sede di lavoro del dipendente individuata contrattualmente. Normalmente questa modalità di invio viene adottata quando l’azienda italiana ha una sede secondaria all’estero (cd. branch), ad esempio un ufficio commerciale o per l’assistenza post-vendita.
Il distacco si ha quando uno o più lavoratori vengono “prestati legittimamente” ad una società di diritto estero autonoma rispetto alla società italiana distaccante, ma solitamente facente parte del medesimo gruppo.
L’assunzione all’estero si configura in tutti i casi in cui l’azienda italiana mantiene all’estero una società di diritto straniero in capo alla quale il dipendente viene assunto.
Perché un’azienda dovrebbe preferire una modalità di invio all’estero rispetto all’altra?
In generale le aziende e i lavoratori devono valutare elementi quali la durata della permanenza all’estero, la tipologia di attività da svolgere, la forma giuridica dell’entità estera dove il manager dovrà lavorare.
Un altro aspetto che ci viene riportato dai manager che incontriamo è la sempre maggiore preferenza dei gruppi multinazionali per l’assunzione diretta all’estero. Quasi sempre ci sembrano poco convinti di questo “biglietto di sola andata”. Tu che ne pensi?
Anche nella nostra esperienza gli italiani che hanno svolto un percorso lavorativo tutto in Italia, anche sul piano previdenziale, sono molto titubanti rispetto a tali contratti esteri proposti dall’azienda. Ovviamente chi ha deciso autonomamente di costruirsi una carriera all’estero è in una situazione completamente diversa: ad esempio, molti italiani vivono da anni in Paesi come la Cina.
In ogni caso, le aziende possono superare le ritrosie del dipendente proponendo, unitamente alla lettera di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, un impegno alla sua riassunzione in Italia con una scrittura privata. Questi impegni possono tuttavia creare conseguenze non sempre semplici da gestire sul piano giuridico, perché in taluni casi vengono disconosciuti e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro viene giudicata come simulata.
E l’aspetto previdenziale, che hai citato, come va considerato? Si applica semplicemente la normativa del Paese nel quale la persona è assunta?
Gli aspetti contributivi sono in realtà molto complessi e vanno valutati caso per caso in funzione dei rapporti con il Paese nel quale il lavoratore è assegnato.
Ovviamente all’interno dell’Unione Europea tutto è più semplice, perché valgono i principi di territorialità della previdenza e dell’unicità della legislazione applicabile: in pratica viene applicato un solo regime, che è quello dello Stato Membro dove il lavoratore presta la propria attività. Ciò però non vale nel caso di invio temporaneo dei lavoratori (trasferta o distacco), in cui è possibile continuare a versare i contributi in Italia.
C’è un elemento di attenzione anche nel caso di rapporti previdenziali all’estero: il principio della totalizzazione (in base al quale il lavoratore percepirà alla fine le pensioni dai diversi Paesi dove ha versato i contributi) è di aiuto, ma vale realmente solo quando il lavoratore ha raggiunto in ciascun Paese un periodo minimo di versamenti definito dalla legislazione locale.
Mi sembra che la disciplina sia più semplice, ma comunque insidiosa per i Paesi dell’Unione. E per quelli extra UE?
Innanzitutto, occorre distinguere tra Paesi che hanno stipulato accordi di sicurezza sociale con l’Italia (cosiddetti paesi convenzionati) e Paesi che non hanno stipulato alcun accordo di sicurezza sociale con l’Italia.
Per quanto riguarda i Paesi extra UE convenzionati, gli accordi di sicurezza sociale prevedono delle specifiche deroghe al principio di territorialità, per cui, al sussistere di determinate condizioni e requisiti, il lavoratore continuerà a versare la contribuzione previdenziale in Italia, interamente se l’accordo copre tutte le forme contributive previste dalla legislazione italiana (cd. accordi totali), oppure almeno per una parte dei contributi laddove l’accordo non copra tutte le suddette forme contributive (cd. accordi parziali). In caso di accordi parziali, si verseranno dei contributi minimi all’estero, ma anche una contribuzione in Italia, calcolando la stessa sulle retribuzioni effettive per i contributi coperti dall’accordo e sulle retribuzioni convenzionali stabilite dalla legge per le forme contributive non coperte dall’accordo.
Per quanto riguarda i Paesi extra UE non convenzionati, devono essere versati i contributi obbligatori sia in Italia sia nel Paese estero. In Italia, i contributi verranno però calcolati sulla base delle retribuzioni convenzionali sopra richiamate.
È davvero un percorso ad ostacoli: la situazione cambia da Paese a Paese…
Certo! E addirittura all’interno di un unico Paese come la Cina ci sono regioni dove ancora non sono stati adottati i regolamenti attuativi per il versamento dei contributi. E quindi, in quel caso, i contributi vengono versati solo in Italia!
E per ciò che riguarda la parte fiscale cosa ci dici? Anche in questo caso è così complesso? Ad esempio, come va gestita la residenza fiscale?
Il primo aspetto di cui il datore di lavoro deve tener conto è se esiste o meno una convenzione internazionale tra l’Italia e il Paese di invio del dipendente che regoli le doppie imposizioni sui redditi. Se presente, è la convenzione stessa a stabilire in quale Paese il reddito da lavoro subordinato debba essere assoggettato a tassazione.
Avere la residenza fiscale in Italia significa mantenere la imposizione italiana sui redditi dovunque prodotti, incluso il reddito da lavoro subordinato. Se il lavoratore trasferisce la residenza fiscale all’estero, potrà continuare ad essere tassato in Italia, ma solo sul reddito derivato dall’attività lavorativa svolta in Italia.
Uno degli “incidenti” più frequenti è quello in cui un lavoratore pensa di aver acquisito la residenza fiscale all’estero, spesso perché convinto che la semplice de-registrazione dall’Anagrafe della popolazione residente in Italia sia sufficiente, ma si ritrova a dover risolvere questioni per regolarizzare la sua situazione con l’Agenzia delle Entrate italiana che, anche a distanza di anni, può contestare il mancato versamento delle imposte.
Il requisito di cui spesso non si tiene conto è il mantenimento o meno del nucleo familiare in Italia. Quando rimane in Italia, e il lavoratore lo raggiunge periodicamente, la perdita della residenza fiscale in Italia è meno difendibile.
Un altro argomento che crea molti dubbi è legato alla Brexit, che pare aver complicato un po’ la vita… Quali sono gli aspetti da tenere in considerazione?
L’aspetto più critico e di maggiore interesse dopo la Brexit è senz’altro quello immigratorio: che visto d’ingresso devo richiedere per lavorare nel Regno Unito?
Nel caso di trasferimenti intra-societari ad esempio, vale a dire fra società di uno stesso gruppo, la normativa inglese prevede il cosiddetto “Intra Company Transfer”, ossia una modalità d’ingresso che consente al lavoratore di svolgere la propria attività lavorativa nel Regno Unito per un periodo massimo di 5 anni, a condizione che il lavoratore sia assunto in capo alla società distaccante da almeno 12 mesi e percepisca un salario minimo lordo stabilito dall’autorità immigratoria inglese.
Affinché il lavoratore possa entrare e soggiornare in UK nell’ambito dell’Intra Company Transfer, è necessario che una società UK acquisisca la "Sponsor License", un’apposita licenza che permette alla stessa di agire quale sponsor per richiedere ed ottenere il visto di ingresso per il dipendente.
Tommaso, grazie. Ciascuno dei temi che abbiamo toccato meriterebbe un capitolo a sé, in quanto ogni argomento apre questioni e sfaccettature non banali.
Certo, lo scenario è assai complesso. Il suggerimento che diamo alle aziende è di non improvvisare, e di esaminare ogni caso preventivamente e con sufficiente anticipo per prendere decisioni consapevoli!